In ambito sociale, essere inclusivi significa sopratutto sentirsi accolti. Sentiamo spesso parlare in ambito moda di “inclusività”, ma molte volte questa non è praticata nel modo giusto, diventando solo la copertina patinata di un libro privo di contenuti.

Perché allora sprecarsi nel predicare inclusività in modo finto e superficiale?

Questo accade perché è il cliente a preferire sempre più spesso le aziende che dimostrano impegno sociale sui temi più importanti. Ma la vera inclusività non parte solo dalla richiesta di un cliente, essa deve sopratutto partire dall’interno del brand. La vera inclusività non è aggiungere un campionario di taglie forti a tutta la propria collezione, essa risiede nel disegnare da zero linee e forme che possano avvolgere come un guanto di seta, corpi diversi ed ugualmente belli.

Perché essere inclusivi parte dal riconoscere le differenze intrinseche di ogni persona e volerle valorizzare tutte egualmente, ma attraverso strumenti diversi. La stessa minigonna nella taglia 34 e taglia 50 non è indice di inclusività. Il pensare inclusivo abbraccia le differenze e le trasforma in punti di forza diversi, mettendole in luce nel modo giusto.

Siamo tutti ugualmente diversi, ed è da qui che dovrebbero partire tutti i brand. Invece troppo spesso, il mondo della moda ha dato dimostrazione del pensiero frivolo e superficiale che da tempo la connota. Sfruttando la diversità, in termini di altezza, peso, etnia, età o disabilità per semplice profitto personale e per porre la propria azienda sotto i riflettori. Ne sono testimoni alcuni dati basati sulle sfilate Primavera Estate 2022, dove il 90% dei brand di Londra e Parigi non includevano modelli non conformi agli standard classici, stesso discorso per l’80% di quelli di Milano, contro il 64% di quelli di New York. Indice del fatto che sono ancora molti i brand, che pur disponendo di una grande esposizione mediatica e di un altrettanto generoso budget, preferiscono ancora la standardizzazione alla personalizzazione, magari aggiungendo qua e là, senza un vero criterio di logica, qualche nota modella curvy al proprio cast.

Purtroppo oggi non può e non deve funzionare più cosí. Il tema dell’inclusività non va trattato come una semplice e passeggera tendenza, o una particolarità anatomica come il must-show dell’anno. Ed è anche vero che certe trasformazioni sociali, sopratutto in un campo nel quale gli stessi sample dei vestiti devono necessariamente avere una misura standardizzata, sia un percorso lungo e molto lento. Ma alle aziende, sia in tema sociale che in tema ambientale non è richiesto il risultato immediato, basterebbe solo provare che ci sia davvero un interesse di fondo verso la tematica, dunque saper ascoltare e rispondere in modo autentico nei confronti del cliente.

E ciò lo si evince da un percorso incisivo e graduale, che riesca a portare avanti una linea di pensiero inclusiva e corretta anche sul lungo termine.
Una soluzione a questo problema ad esempio potrebbe essere rappresentata dalla “personalizzazione” dei capi. Una risposta semplice ma efficace a simboleggiare un’apertura mentale coerente con i tempi e le tematiche correnti. Offrire ai clienti la possibilità di personalizzare un capo, significa mettere il prodotto a disposizione del cliente, per adattarlo alle sue esigenze e singolarità; mettere il cliente al primo posto dimostrando che non è lui/lei a dover cambiare per indossare un vestito, ma è il vestito a dover essere disegnato per avvolgere perfettamente la sua silhouette.

Similarmente a quanto accade nel settore dell’abbigliamento intimo, dove da anni si lavora cercando di realizzare nuove taglie e forme che meglio possano adattarsi a forme uniche e diverse, cosí anche nell’abbigliamento, l’applicazione del concetto di “personalizzazione” si dimostra essere oggi la scelta più inclusiva.

N.B.: quando si parla di moda e inclusività, si fa riferimento sempre e solo al corpo femminile senza mai prendere in considerazione anche la diversità del corpo maschile. È ora di cambiare anche questo paradigma.