La parola sostenibilità all’interno del mondo della moda è diventata da anni a questa parte uno dei termini più usati (e sfruttati) dalle aziende. Cosí come per il food business l’industria si è improvvisamente svegliata una mattina in un mondo totalmente etichettato “bio” e “vegan”, cosí il mondo della moda ha iniziato ad apporre il label “sostenibile” a qualsiasi prodotto, che lo fosse effettivamente, o che fingesse per puro fine commerciale.

Un capo in poliestere riciclato è diventato improvvisamente più appetibile di uno in seta, nonostante né l’effettiva percentuale di materiale riciclato né la quantità di energia e risorse per realizzarlo siano effettivamente quantificabili come inferiori a quelle di un capo in tessuto naturale.

Il green washing è così diventato una delle attuali piaghe del sistema moda: di base si tratta della strategia di comunicazione o di marketing che presenta come ecosostenibili attività o prodotti, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo. Ed in molti casi per anni queste pratiche hanno trovato riscontri positivi nei clienti, che fidandosi, hanno davvero creduto di star acquistando un prodotto a basso impatto ambientale.

Lo sfruttamento della parola “sostenibile” e “green” ha finito per produrre il risultato contrario, spostando l’attenzione dal problema ambientale alla redditività del commercio green. E ciò si evince dai risultati ancora non abbastanza sufficienti delle aziende in tema di impatto ambientale. Dalla raccolta dati di The BoF Sustainability Index 2022, basata sui 30 players più importanti tra il settore lusso, sportivo e fast fashion, e divisa in categorie di risultati, risulta che tra le categorie: emissioni, trasparenza, acqua & agenti chimici, materiali, etica lavorativa e riciclo dei materiali, l’impegno maggiore è quello orientato verso la diminuzione delle emissioni gas serra con 47/100 punti di media, mentre il punteggio più basso è detenuto proprio dall’impegno verso il riciclo dei materiali, con appena 22/100. A livello globale infatti in questo momento prevale una strategia net-zero, che mira a rendere l’attività imprenditoriale “carbon neutral”. Un campo in cui l’Europa è all’avanguardia, con l’impegno dell’UE a ridurre le emissioni del 55% nel 2030 e raggiungere lo zero net entro il 2050. Per raggiungere nel breve termine questo obiettivo, le aziende spesso si rivolgono al Voluntary Carbon Market (VCM), un “mercato libero” di carbon offset dove è possibile comprare crediti per ridurre spontaneamente la propria produzione di carbonio.

Contemporaneamente gli stessi risultati non sono stati ottenuti nel recycling, le cui procedure lente e complesse non sono appetibili economicamente per le aziende. L’impossibilità di pianificare la progettazione su larga scala a causa della variabilità dell’offerta, i limiti delle tecnologie di riciclaggio, le infrastrutture limitate e la difficoltà di lavorazione associata ai costi elevati, sono gli ostacoli che comportano il fatto che ad oggi solo l’1% gli indumenti sia realmente riciclato.

E mentre dietro le quinte le tecniche di recycling falliscono nel limitare i danni ambientali, sul palco della vita vera essi contribuiscono ad esacerbare gli sprechi, come i contenitori per il riciclaggio presenti nei negozi, dove la maggior parte degli indumenti donati finisce nelle discariche dei paesi poveri, con il solo risultato di incoraggiare il consumismo. Una recente analisi del ciclo di vita (LCA) sui jeans di cotone ha rivelato che l’impatto sul cambiamento climatico dell’acquisto e dello smaltimento di un paio di jeans è pari a quello del riciclaggio degli stessi.

Di fronte a questi dati, si evince come il vero limite della sostenibilità sia la stessa superficialità con cui viene trattata la tematica. Da parte del cliente c’è la necessità di non fermarsi piú al singolo cartellino “green” la prossima volta, ma di investigare più a fondo circa l’effettivo impegno ambientale del brand. E da parte dei brand c’è la necessità di una maggiore trasparenza e correttezza nell’ammettere i propri impegni e i propri limiti, senza scadere nel “green wishing”. In assenza di queste premesse, non si rallenta solo il progresso in tema ambientale, ma si ostacolano anche i risultati.